Interviste

Verso una definizione di ruolo: Il Decalogo del Capo dell’Ufficio Giudiziario

15 ottobre 2014 - Abbiamo intervistato il dott. Luca Verzelloni, ricercatore presso l’Istituto di Ricerca sui Sistemi Giudiziari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRSIG-CNR) e direttore del Centro per l'Organizzazione, il Management e l'Informatizzazione degli Uffici Giudiziari (COMIUG), con cui ripercorriamo il tema relativo al “Decalogo del Capo dell’Ufficio Giudiziario” pubblicato nel volume collettaneo “Giustizia in bilico. I percorsi di innovazione giudiziaria: attori, risorse, governance” (a cura di Sciacca, Verzelloni e Miccoli - Aracne, 2013).

Può brevemente descriverci in cosa consiste il “Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario”, a quali principi si ispira e quali sono gli scopi che intende perseguire?

Il Decalogo è un tentativo di definire compiti, funzioni e responsabilità del capo dell’ufficio giudiziario, sia giudicante che requirente. Il documento ambisce a riflettere su una tematica di estrema attualità, esplorata solo in parte dal dibattito che si è sviluppato negli ultimi anni. Pur essendo stata oggetto di numerosi interventi legislativi e, soprattutto, di svariate pronunce del Consiglio Superiore della Magistratura, quella del capo ufficio è una funzione dai contorni tratteggiati che, non di rado, viene interpretata in modi anche molto diversi, a seconda di inclinazioni personali e realtà di riferimento. Lungi dal voler catalogare le qualità del “buon dirigente”, il documento intende stimolare la comunità professionale ad una riflessione complessiva su attitudini, comportamenti e prestazioni del capo ufficio. Il Decalogo si articola in dieci macro funzioni, strettamente connesse fra loro: garanzia dell’attività professionale, presidio della struttura e dell’identità organizzativa, rappresentanza e comunicazione istituzionale, presidio delle risorse, direzione e programmazione, governo delle interdipendenze, valorizzazione delle competenze, valutazione, monitoraggio e vigilanza, giustizia come funzione pubblica e bene comune. Il documento, che ha avuto una notevole diffusione a livello nazionale, si interroga sul ruolo del capo ufficio a normativa invariata e presuppone il pieno rispetto di tutti i doveri deontologici associati alla funzione.


Quale è stata la metodologia adottata per giungere alla stesura del Decalogo e quali sono stati gli attori coinvolti?

Il Decalogo è frutto di un “dialogo a più voci” fra practitioners e scholars, ovvero fra “addetti ai lavori” e mondo dell’accademia e della ricerca. Il documento, sviluppato con il supporto meto-dologico del COMIUG, è stato elaborato nell’arco temporale di due anni (2010-2012), a seguito di un ciclo di incontri seminariali, che si sono tenuti a Murazzano (CN) e Bologna. Fin dalla sua prima versione, il Decalogo si è configurato come uno “strumento in divenire”, aperto al contributo e alle proposte di tutti, senza distinzione di ruolo, provenienza e correnti. Nello spirito dell’iniziativa, il documento è stato più volte riscritto e affinato, fino all’ultima versione dell’ottobre 2012, che si riferisce sia ai capi degli uffici giudicanti che di quelli requirenti. Complessivamente, hanno preso parte alla stesura del documento una quarantina fra capi ufficio, magistrati, consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura, funzionari del Ministero, rappresentanti della Scuola della Magistratura, dirigenti amministrativi, ricercatori e docenti universitari.


A suo modo di vedere, quali sono le caratteristiche distintive del capo dell’ufficio giudiziario che emergono dal Decalogo? Quali sono gli strumenti di cui necessita il magistrato con funzioni direttive per poter mettere in pratica quanto previsto dal Decalogo?

Il capo ufficio che emerge dal Decalogo si distanzia sia dall’antica prospettiva del dirigente come “primus inter pares” che dall’assurda idea di un manager dotato di spiccate capacità personali, in grado di risolvere autonomamente i problemi dell’ufficio giudiziario. Quella del capo ufficio, infatti, è una funzione specifica, chiaramente distinta dalla normale attività giurisdizionale, che di conseguenza non può affatto configurarsi come un semplice “premio alla carriera”. I magistrati con funzioni direttive dovrebbero avere precisi compiti, funzioni e responsabilità, definiti dalla medesima comunità professionale, in grado di orientare la loro selezione, valutazione e formazione. Allo stesso tempo, il Decalogo si fonda su una precisa convinzione, sostenuta da numerose evidenze empiriche: per quanto sia centrale la figura del dirigente, solo coinvolgendo e responsabilizzando l’intero ufficio giudiziario si possono ottenere risultati effettivi, diffusi e duraturi. In questo senso, il capo ufficio dovrebbe essere aperto al confronto, supportare lo sviluppo di specifiche “comunità di pratica” e promuovere la costituzione di una “struttura di direzione”. Tutto ciò si richiama direttamente alla nota immagine della “piramide rovesciata”, ovvero l’idea secondo cui il vertice dell’organizzazione dovrebbe essere rappresentato dai suoi membri e non dal capo che, in quanto tale, è chiamato ad una funzione di “servizio”, in modo da assicurare le condizioni necessarie affinché tutti possano svolgere al meglio la loro attività professionale. Alla luce di questa concezione, il principale strumento nelle mani del dirigente è il meccanismo della delega, formalizzata e puntuale, specialmente in tema di governo dei processi di innovazione e miglioramento. Inoltre, dal momento che il capo ufficio rappresenta la corte all’esterno ed è responsabile della sua comunicazione istituzionale, vi sono una serie di strumenti operativi legati a doppio filo all’esercizio della funzione direttiva. A differenza di dieci anni fa, anche a seguito dei risultati del progetto “best practices”, strumenti quali siti web, bilanci sociali, carte dei servizi e rendiconti sociali hanno assunto un ruolo assolutamente centrale, in un’ottica di promozione della responsabilità sociale dell’ufficio giudiziario.


Sulla base delle ricerche da lei condotte può segnalarci esperienze simili al “Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario” avvenute in altri paesi?

A mia conoscenza, il Decalogo si configura come un unicum a livello europeo. In nessun altro Paese dell’Unione, infatti, è stata avviata una riflessione di questo tipo, animata dagli stessi membri della magistratura, su compiti, funzioni e responsabilità del capo dell’ufficio giudiziario. Per questo motivo, il Decalogo sta suscitando grande interesse anche al di fuori dei confini nazionali: di recente il documento è stato tradotto in spagnolo e pubblicato nella rivista: “Jueces para la Democracia. Información y debate” (n. 79, marzo 2014).
Se si volesse cercare una possibile spiegazione del perché questo dibattito sia emerso proprio in Italia e non in altri Paesi, si dovrebbe tenere conto, da un lato, dell’estrema complessità e farraginosità del quadro ordinamentale in materia di competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi (c.d. “doppia dirigenza”) e, dall’altro, delle croniche difficoltà organizzative e gestionali che contraddistinguono il sistema giudiziario italiano. La combinazione di questi fattori fa sì che i magistrati italiani con funzioni apicali siano chiamati a gestire quotidianamente un livello di complessità certamente superiore a quello dei loro colleghi stranieri, sia sul versante “interno” (presidio della struttura, problem solving, definizione dei progetti organizzativi, rappor-to con la dirigenza amministrativa, confronto con i semidirettivi, assegnazioni, turnover, valutazioni, promozione dell’innovazione, governo delle risorse umane, tecnologiche e strumentali, ecc.) che “esterno” (relazione con il Ministero, interdipendenze con gli altri organi giudicanti e requirenti, dialogo con l’avvocatura, ricerca di partnership istituzionali, rapporto con i media, promozione della responsabilità sociale, ecc.).


Il progetto interregionale transnazionale “Diffusione di best practices negli uffici giudiziari italiani” ha cercato negli ultimi anni di promuovere il trasferimento e lo scambio di buone prassi tra gli uffici giudiziari italiani. Dal suo punto di vista in che modo questa tipologia di progetti può favorire la diffusione di iniziative come quella rappresentata dal Decalogo?

Da un punto di vista organizzativo, come conferma la letteratura su questi temi, la giustizia italiana può essere definita un “loosely coupled system” (Weick 1976; Orton, Weick 1990). Ogni articolazione del sistema, infatti, è strutturalmente dotata di ampia autonomia, che deriva dalla scarsa integrazione con il “centro”, dalla marcata propensione all’autodeterminazione e dall’assenza di forti interdipendenze gerarchiche e tecnologiche. Gli uffici giudiziari italiani ap-paiono, pertanto, un microcosmo di soluzioni, prassi e conoscenze idiosincratiche, intrinsecamente legate al contesto in cui sono nate e, nel tempo, si sono istituzionalizzate. Tenendo conto delle caratteristiche del sistema, il progetto “best practices” opera proprio a livello locale e presuppone un coinvolgimento diretto degli stessi destinatari, che propongono le azioni di miglioramento da intraprendere. Tutto ciò favorisce lo scambio di know-how e lo sviluppo di fenomeni diffusi di apprendimento organizzativo, ma rischia al contempo di accentuare le diffe-renze territoriali, specialmente in termini di qualità del servizio erogato dagli uffici. Per questa ragione, un progetto di tale portata presuppone un forte governo a livello centrale, che stimoli la diffusione delle esperienze virtuose, sperimentate con successo nelle “periferie” del sistema. In questo senso, il Decalogo potrebbe diventare uno strumento di valutazione, per verificare comportamenti e prestazioni dei magistrati con funzioni apicali, ovvero per mappare i diversi modi di interpretare il ruolo di capo ufficio, soprattutto in termini di promozione dell’innovazione giudiziaria.


Per saperne di più


Ultima versione del Decalogo  (Ottobre 2012)

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Biografema di Luca Verzelloni
 

Ultimo aggiornamento:  28/06/2013

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