Intervista a Giovanni Moro - Fondaca
Giovanni Moro è presidente di Fondaca (Fondazione per la Cittadinanza Attiva) e insegna alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Roma 3. Ha partecipato, come esperto, ad alcuni incontri preparatori per la stesura del rapporto OCSE “Open and Inclusive Policy Making” (giugno 2009)
D. Il rapporto OCSE, che presentiamo in questo numero, ha un titolo significativo “Focus sui cittadini – la partecipazione per migliorare le politiche e i servizi”. Quale ritiene sia il contributo delle associazioni della società civile nei e per i processi di partecipazione?
R. C’è, anche a livello di letteratura europea ed internazionale, una ambiguità irrisolta che riguarda la partecipazione dei cittadini organizzati ai processi di democrazia partecipativa. Cerchiamo di analizzare meglio le ragioni di questa criticità?
Una prima risposta è che, sussiste, da parte governi, la tendenza a considerare i cittadini come singoli individui.
Il secondo elemento ha a che fare con quella che io chiamo la “partecipazione a cosa”. Mi spiego meglio: in genere le tematizzazioni della democrazia partecipata che le istituzioni tendono a dare, riguardano la partecipazione dei cittadini ai processi amministrativi, mentre l’esperienza dei cittadini organizzati, e quindi delle organizzazioni della società civile, ha più a che fare con funzioni di governo della società, non necessariamente all’interno del processo amministrativo. In tal senso potremmo dire che le associazioni operano più nella logica della sussidiarietà che in quella dell’inclusione nel processo di definizione delle policies.
Resta così, poco chiaro se l’oggetto della partecipazione siano i programmi dell’amministrazione o il governo della società.
È evidente invece che le organizzazioni civiche sono più utili ed attive nella dimensione del governo della società che nei processi amministrativi. Ma naturalmente, lavorare al livello dei governo della società è più complicato e faticoso; inoltre le organizzazioni dei cittadini – rispetto ai cittadini singoli - sono interlocutori più problematici e meno facili da gestire. Sono comunque interlocutori necessari ed è quindi è importante affrontare questo punto e risolvere tale ambiguità.
D. Il rapporto OCSE, già citato, evidenzia luci ed ombre nel rafforzamento del ruolo dei cittadini nei diversi processi e stadi della partecipazione. Guardando alle criticità rilevate, si evidenzia in particolare l’elemento dei costi, per esempio, in termini di ritardo, nei tempi della decisione. Secondo lei è davvero così, o forse si tratta di una percezione non del tutto veritiera?
R. Si tratta di un argomento molto dibattuto. Io direi che quello che si perde in termini di tempo prima si guadagna poi perché si evitano blocchi e conflitti nella fase dell’attuazione. Mi vengono in mente, a tale proposito, numerosi casi italiani – penso al sito unico dei rifiuti nucleari in Basilicata, quando una decisione univoca e non condivisa si è dovuta scontrare (e poi ritrattare) con l’attivismo dei cittadini.
In ogni caso direi che l’idea che la partecipazione possa ritardare i tempi della decisione dipende fortemente dalla difficoltà nel capire fino in fondo a cosa serve il dialogo con i cittadini.
Nei paesi europei – non solo in Italia – c’è la difficoltà a pensare al rapporto con i cittadini in termini di collaborazione e supporto e non come “fonte di problemi da risolvere”. Per cui un’amministrazione tende piuttosto, nel relazionarsi con i cittadini, a fare delle consultazioni. La filosofia è: diteci quale è il vostro problema e tentiamo di risolverlo, piuttosto che impostare un lavoro condiviso per affrontare insieme le questioni in agenda.
Un esempio che faccio sempre agli studenti viene dalla prima Giunta Rutelli (1994). Era stata lanciata l’iniziativa “Chiedi al Sindaco”. Come risultato di questo programma migliaia e migliaia di persone, con migliaia e migliaia di domande diverse, si presentavano, negli incontri settimanali. Magari se si fosse parlato di “Aiutare il Sindaco”, più che di chiedere, lo spirito e il feedback sarebbero stati diversi. Questo per dire che c’è chiaramente una difficoltà nel definire a cosa serve il dialogo con i cittadini, al di là del fatto che oggi è di moda, è politicamente corretto e va fatto.
D. In tal senso le organizzazioni civiche potrebbero favorire, nella relazione con le istituzioni –una partecipazione più consapevole, efficace e costruttiva dei cittadini?
R. Il ruolo delle organizzazioni civiche non è esattamente quello di tramite tra istituzioni e cittadini. Questa idea è, per esempio, molto sentita in ambito di istituzioni europee: l’Unione Europea definisce le associazioni come “ambasciatori delle istituzioni presso i cittadini”.
A mio avviso però le organizzazioni hanno più il ruolo di qualificare l’azione dei cittadini, che di esserne il tramite. L’elemento chiave è che bisogna far buon uso dei cittadini e spesso questo non accade.
Va inoltre specificato che le organizzazioni civiche non sono dei rappresentanti della cittadinanza, come lo sono i partiti in Parlamento. Il modello della rappresentanza attraverso il voto, che si applica ai partiti politici, non è replicabile per le associazioni che esercitano, invece, altre funzioni: alcune erogano servizi, altre svolgono attività di advocacy, alcune hanno un’audience diffusa (si pensi alle tematiche ambientali), altre si rivolgono a target di nicchia ma di interesse generale (penso alle onlus sulle malattie terminali).
D. In questo modello di codefinizione codecisione, coprogettazione, covalutazione, dove il coinvolgimento del cittadino può avvenire, potenzialmente, in tutte le fasi, come cambia e si aggiorna, secondo lei, il ruolo dell’Istituzione pubblica?
R. Con questa immissione di “energie civiche” nel processo di policy making cambiano tante cose.
Cito in primis un cambiamento di rango costituzionale, sancito dalla modifica del Titolo V e dall’introduzione del principio di sussidiarietà. Con esso è cambiato il significato e il ruolo dei cittadini nel sistema pubblico: si è passati da una partecipazione rappresentativa, mediata dai partiti, ad una diretta, in cui i cittadini possono partecipare liberamente e su base quotidiana.
C’è poi un cambiamento più operativo, che investe le istituzioni e i propri sistemi di governo: da un modello di government a sistemi di governance. Il processo di riforma amministrativa in atto serve anche a gestire questo nuovo modello. In tale ambito si inserisce poi un tema molto discusso, soprattutto tra gli studiosi, che è quello della delega, cioè se le amministrazioni devono comunque mantenere, anche nei processi inclusivi, il governo delle iniziative, per tutelare l’interesse generale dal rischio di particolarismi. Io credo che il problema della delega, se pur esiste, sia più che altro teorico e andrebbe contestualizzato nella realtà, dove ci sono purtroppo tante politiche (tipo welfare) in cui l’amministrazione pubblica dovrebbe mantenere le redini ed invece è totalmente assente.
Quindi, pur riconoscendo il ruolo fondamentale dell’amministrazione, anche nei processi di partecipazione, non farei di questo elemento un punto di discussione solo accademica.
D. Fondaca, assieme a Cittadinanzattiva ha promosso uno studio sulla misurazione della società civile, attraverso la costruzione di un Indice. La fotografia che emerge, dall’uso di questo indice, evidenzia, a livello italiano, una struttura abbastanza debole. Può dirci qualcosa in più sulle modalità di costruzione dell’indice e sulla situazione italiana?
R. Gli indicatori utilizzati e gli indici costruiti sono il frutto di una metodologia comune ed utilizzata negli oltre 60 Paesi in cui questa ricerca internazionale è stata condotta. Innanzitutto, rispetto a tale contesto internazionale, va detto che, soprattutto per noi italiani abituati a pensare di essere sempre gli ultimi in tutti i campi, ci sono molte cose in cui invece siamo all’avanguardia.
Cercando di dare una lettura più specifica rispetto alla società civile italiana, viene fuori quella che noi abbiamo definito come una “paradossale relazione inversa”. Mi spiego meglio: la capacità di avere un impatto diretto sulla realtà (saper risolvere problemi, affrontare situazioni di emergenza, etc) è molto più forte in Italia che in altri Paesi. Questo elemento è corredato dal fatto che le organizzazioni della società civile godono in Italia del massimo livello di fiducia pubblica – più del Presidente della Repubblica e dei Carabinieri; i partiti (ultimi in questa classifica) hanno un livello di fiducia 10 volte minore!
A fronte di questo aspetto positivo, il problema sta però nella capacità delle associazioni di incidere nella agenda politica (per esempio a livello di legge finanziaria). In questo caso il rapporto è inverso e da qui scaturisce il paradosso: maggiore è la fiducia pubblica, maggiore è la capacità di intervenire concretamente, minore l’incisività nella definizione delle politiche pubbliche.
Più che un problema con l’amministrazione questo è quindi un problema con la politica, che sancisce una bassa capacità di incidere sugli orientamenti generali.
Per il caso italiano, questo è l’elemento più significativo che emerge dal rapporto e non è particolarmente positivo, ma piuttosto frustrante: viene mobilitata una grande energia, che però non ha il peso che potrebbe avere e che quindi, in qualche modo, si disperde, nel senso che non viene utilizzata per mettere mano a grandi problemi, tipo quelli ambientali.