Intervista a Leda Guidi - Comune di Bologna

Leda Guidi è responsabile della rete civica Iperbole di Bologna ed ha collaborato al progetto OCSE “Open and Inclusive Policy Making”. L’esperienza del Comune di Bologna è stata descritta nel rapporto finale “Focus on citizens: public engagement for better policy and services” (2008) dedicato al tema della partecipazione dei cittadini ai processi decisionali e alla formulazione e attuazione delle politiche pubbliche (giugno 2009)

Bologna, soprattutto con riferimento all’esperienza della rete civica Iperbole, iniziata nel 1994, ha consolidato pratiche di partecipazione e inclusione sociale che puntano sul ruolo cruciale rivestito in questo ambito dalle nuove tecnologie. Vuole raccontarci in sintesi quali sono le maggiori opportunità e criticità legate all’esperienza di Bologna?

ll Comune di Bologna, ormai da 15 anni - una vera e propria era per quanto riguarda internet  e le nuove tecnologie! - ha scelto di muoversi secondo le linee maestre della telematica civica e dell’accesso. Ovviamente, in un arco di tempo così lungo le azioni attuate sono state fortemente influenzate dai cambiamenti tecnologici e dal processo di convergenza dei media, che hanno ingenerato via via opportunità, criticità, mutamenti di paradigma. Ai primi pionieristici anni delle reti civiche, veri e propri progetti olistici – forse un po’ ingenuamente ottimistici - a favore dello sviluppo delle comunità telematiche (le parole chiave: teledemocrazia, alfabetizzazione, accesso gratuito a internet, postazioni pubbliche, siti istituzionali con contenuti prodotti dalla società civile organizzata), è seguito l’affermarsi dei portali-contenitore come “macchine” distributive, modello broadcasting, di informazioni e servizi. In questo ambito l’interattività era soprattutto funzionale alle relazioni transattive, con un approccio “one stop shop”, quasi sempre top down, efficiente ma ben poco partecipativo.. In tal senso, la prima fase dell’e-government è stata poco segnata dalla e-governance, dalla messa in campo di relazioni reticolari orizzontali, concentrata piuttosto sull’amministrazione digitale, i servizi on line, di più sul “prodotto” elettronico che sull’uso delle tecnologie per i processi decisionali e inclusivi. Da qualche anno invece le sperimentazioni (perché in generale di sperimentazioni si tratta) di e-participation sono sempre più praticate, in particolare a livello territoriale - anzi di prossimità, di quartiere, di zona - dimensione adatta alla mobilitazione creativa e progettuale dei singoli, dei gruppi di interesse, delle associazioni. La strategia “digitale” di Bologna in questo quadro è stata avvantaggiata dalla consuetudine di lungo corso al dialogo e allo scambio off line e on line, e dalla reattività consolidata della comunità di Iperbole, dal senso di appartenenza alla rete civica, considerata a tutti gli effetti un servizio ed uno spazio pubblico, luogo di comunicazione plurale e di esercizio della cittadinanza, della e-citizenship. Dai newsgroup del ’95, passando per i progetti di e-democracy, la pianificazione partecipata, i processi decisionali on line fino ad arrivare alle attuali sperimentazioni di nuovi spazi di confronto con applicativi web 2.0 (wiki, social network, contenuti generati dagli utenti, ecc.), sono state e sono più le opportunità che le criticità. Queste ultime fanno riferimento ai temi aperti della sostenibilità nel tempo dei progetti in generale, delle nuove marginalizzazioni digitali/culturali da affrontare, delle questioni/limiti giuridico-istituzionali da risolvere e delle regole che devono essere chiare e possibilmente negoziate con i cittadini. Al di là delle difficoltà è comunque essenziale per noi insistere – attraverso Iperbole e i suoi spazi bottom up - nello sviluppo di un’interattività autentica e bidirezionale, tale da comportare anche la ricerca e la pratica di nuove forme dell'apprendimento, della comunicazione e della produzione. Una forte constituency attorno alla rete civica e alle sue “politiche telematiche aperte” è senz’altro un punto di forza di Iperbole, anche per quanto riguarda uno sviluppo inclusivo della comunità elettronica bolognese.

Cosa l’ha sorpresa maggiormente dal confronto di Bologna con le altre esperienze internazionali, presentati nel report OCSE?

La collocazione geografica dei “case studies” è così eterogenea (dalla Corea alla Finlandia, dalla Nuova Zelanda alla Turchia al Canada) da rendere arduo un confronto adeguatamente fondato e motivato dei punti in comune o di difformità – e relative graduazioni – delle esperienze considerate nei contesti di applicazione. Vi sono certamente denominatori comuni: ad esempio la necessità, oggi alla base di ogni attività di progettazione di un servizio pubblico (e a maggior ragione di una esperienza di partecipazione), di praticare un approccio aperto, interattivo, capace di influenzare stili di relazione e modificare culture di comunicazione interne alle istituzioni pubbliche, troppo spesso propense alla conservazione, come lo sono “quasi naturalmente” tutte le organizzazioni complesse. Un altro punto che accomuna chi si occupa di processi partecipativi (ma anche di servizi on line) è la spinta tecnologica in atto verso la multicanalità, cioè verso la sperimentazione dei media disponibili. Bisogna cogliere in tempo e come opportunità (non come minaccia) le trasformazioni in atto nei comportamenti sociali quotidiani; queste trasformazioni contaminano sempre di più la dimensione fisica – e quindi  anche quella della partecipazione democratica laddove praticata - con la sfera comunicativa immateriale, mediata dalle ICT. Certamente un tratto distintivo dell’esperienza bolognese è proprio, da sempre, la forte propensione alla multicanalità, a 360 gradi. La sfera virtuale e quella fisica, tradizionale, agiscono in parallelo e si complementarizzano anche nei processi partecipativi e inclusivi, per consentire ai cittadini in condizioni differenziate scelte plurime e assecondare vocazioni diverse: le “diete mediatiche” variano, sono sempre più personalizzate, ma le relazioni face to face, gli incontri e gli scambi personali restano basilari per creare reti, sentire comune, concordare piattaforme, costruire fiducia e senso di appartenenza.

Il già citato rapporto OCSE, evidenzia luci ed ombre nel rafforzamento del ruolo dei cittadini nei diversi processi e stadi della partecipazione. Guardando alle criticità rilevate, si evidenzia in particolare l’elemento dei costi, per esempio, in termini di ritardo, nei tempi della decisione. Secondo lei è davvero così, o forse si tratta di una percezione non del tutto veritiera?

La percezione può essere in parte corretta: quando si progetta in modo partecipato o si sottopone una decisione o una scelta alla condivisione dei cittadini i tempi di “produzione” si dilatano, le professionalità coinvolte si diversificano, le fasi successive del percorso vanno gestite e strutturate e, di conseguenza, i costi cambiano rispetto alle pratiche tradizionali top down. E’ evidente che tali considerazioni fattuali, certo doverose per scegliere consapevolmente, non esimono le pubbliche amministrazioni dal confronto con forme di democrazia complementare, aggiuntiva, a quella rappresentativa. Decisioni e servizi partecipati – anche nel disegno e nella progettazione – sono percepiti con maggior empatia da destinatari e utilizzatori, e i potenziali conflitti a priori connaturati alla sindrome di “nymby” (not in my back yard – non nel mio giardino) possono essere affrontati con maggior successo e minori costi sociali. Cercare nuove vie e partner per risolvere il problema della sostenibilità, che esiste, è indubitabile, resta comunque necessario. Reti nazionali e internazionali di buone pratiche possono essere di qualche aiuto, soprattutto dal punto di vista metodologico. Bisogna però uscire dai soli contesti sperimentali e delle good practices per mettere in campo azioni mature e replicabili. E’ vero che uno dei nodi da sciogliere per consolidare e diffondere l’applicazione di processi partecipativi/inclusivi è quello dell’elaborazione di nuove forme di sostenibilità, funzionali ed applicabili a differenti realtà a livello regionale, nazionale e internazionale.

Una questione rilevante è anche legata alla mancanza di pratiche valutative consolidate e diffuse, riferite ad esperienze di partecipazione inclusiva. Come si può incidere, a suo avviso, su questo particolare aspetto?

È necessario adottare un approccio sistemico e metodologie il più possibile condivise a livello nazionale per la misurazione/valutazione della qualità e dell’efficacia dei processi di “produzione” di servizi e piattaforme - con particolare attenzione a quelli innovativi - nelle pubbliche amministrazioni, incluse le esperienze di democrazia partecipata. Occorre definire modelli di rilevazione degli outcome affidabili, portabili e confrontabili per valutare in modo il più possibile oggettivo i risultati ottenuti in relazione agli obiettivi dichiarati, alle regole stabilite e la loro congruità/coerenza con gli investimenti effettuati in termini di risorse economiche e professionali. Nella definizione di questa “modellistica” il mondo della ricerca e dell’università è un partner/co-attore indispensabile, quale osservatore esperto esterno per un giudizio “freddo” e scientificamente fondato. Anche la rendicontazione sociale – sempre più adottata da parte degli enti pubblici territoriali - è uno strumento prezioso per misurare il “capitale sociale” generato dalle esperienze di partecipazione inclusiva, oltre che di altre attività e politiche pubbliche. Usando in maniera annuale, circolare, oltre al rendiconto economico-finanziario, anche questo tipo di lettura dei risultati si ottengono elementi utili alla eventuale riprogettazione di interventi programmati o in corso, allineandoli alle esigenze dinamiche ed evolutive dei cittadini. Inutile dire che gli ostacoli sul cammino verso la definizione e l’affermazione piena di tali modelli valutativi sono tanti, dal punto di vista politico, burocratico, organizzativo, ecc,. Occorre lucidità e determinazione da parte delle PA nel porsi in modo sistematico questi obiettivi, e nel considerare anche orizzonti temporali medio-lunghi, non solo risultati immediati: questi appaiono però a molte amministrazioni i più attrattivi e spendibili dal punto di vista politico-istituzionale, e ciò è del tutto comprensibile. Modelli condivisi a livello europeo/internazionale sono anch’essi utili alla legittimazione delle pratiche valutative come indispensabili, intrinseche ai “processi produttivi”, tenendo conto delle peculiarità istituzionali, normative, comportamentali nei diversi paesi e contesti.

A questo riguardo, ci sono esempi soprattutto riferiti all’esperienza di Iperbole, o del Comune di Bologna, che può segnalarci?

Tutte le esperienze di partecipazione e di inclusione messe in campo dal Comune di Bologna – anche attraverso Iperbole - sono state monitorate dal punto di vista quantitativo e qualitativo. In particolare i processi partecipativi riferiti all’urbanistica/pianificazione territoriale e all’ambiente sono stati seguiti dal Dipartimento di Comunicazione dell’Università di Bologna. Numeri e risultati in termini di obiettivi raggiunti sono stati documentati sia on line che off line, con iniziative di informazione e comunicazione rivolte ai partecipanti/protagonisti e ai cittadini in generale. Inoltre le sperimentazioni di e-democracy attuate nell’ambito di progetti regionali e europei hanno avuto forme di monitoraggio e valutazione, funzionali anche alla rendicontazione alle istituzioni partner. Il Comune di Bologna sta oggi partecipando, con altre 15 grandi città europee del network EUROCITIES – Knowledge Society Forum a un progetto, ormai in fase conclusiva, , che avrà come output la valutazione e il confronto su un campione dei servizi di e-government selezionati e considerati come di punta dalle città partecipanti. Tra questi ci sono anche alcuni processi partecipativi. I risultati del progetto saranno presto disponibili. Quest’attività di benchmarking/benchlearning, basata sulla condivisione di indicatori/criteri e tipologie di servizi scelti per la misurazione quantitativa/qualitativa, vuole proprio confrontare politiche, azioni, progettualità e risultati paragonabili a livello sovranazionale.


Ultimo aggiornamento:  26/11/2015

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