Tema: Comunicazione pubblica
Si dice che l'uomo di fronte alle vere complessità tenda ad avere paura o a decidere troppo tardi. Il caso del deposito unico delle scorie nucleari individuato a Scanzano Jonico - che ha prodotto, in un quadro apparso come un blitz decisionale non accompagnato da adeguata comunicazione istituzionale, vaste proteste popolari e alla fine il ritiro del decreto legge da parte del governo -, sembra la prova di questa diceria.
Da un lato vi sono i profili razionali della vicenda. Circa 140 sono i luoghi in cui vengono variamente stoccati materiali radioattivi. In buona parte si tratta di depositi notoriamente non in condizione ottimale di sicurezza (in Piemonte acqua alluvionale è entrata nelle stanze del deposito, una vera alluvione che si porti via i depositi comporta l'evacuazione dell'intera pianura padana). I rischi sono molteplici, sia ambientali, che tecnologici, che legati a problemi di sicurezza (terrorismo, eccetera). La radioattività in parte è originata da depositi di centrali nucleari da tempo chiuse (la più pericolosa). In parte è quotidianamente prodotta da attività industriali e di servizio su tutto il territorio nazionale (basti solo ricordare gli ospedali). L'Europa sull'esempio degli Stati Uniti ha fatto la scelta del deposito unico nazionale perché essa compatibilizza ragioni finanziarie, tecnologiche, scientifiche e geologiche. I parametri a disposizione nelle competenti sedi tecniche e scientifiche consentono più uscita: dalla massima sicurezza nella maggiore durata nel tempo (migliaia di anni), alla soglia minima di sicurezza per un tempo limitato. Con molte soluzioni intermedie. Ha detto il Premio Nobel Carlo Rubbia in Parlamento: con Scanzano Jonico si è voluto fare una scelta iperprotettiva. Figuriamoci con il quadro di emotività diffusa che connota l'atteggiamento dell'opinione pubblica se si fosse fatta una scelta moderatamente protettiva. A buoni conti risulta evidente che i parametri di massima sicurezza portano a pochi, pochissimi luoghi possibili (assenza totale di falde, salgemma intoccata, argilla abbondante e non di riporto).
Al lato opposto parametri di sicurezza più blanda consentono liste più ampie di luoghi possibili. Durante l'estate, non per scelte definite ma solo per circolazione di voci (e pare nel quadro in cui le Regioni abbiano preferito non entrare in una vera discussione sui parametri, nella consapevolezza che poi su qualcuno la scelta doveva cadere), avevamo avuto già un laboratorio di reattività sociale molto forte in Sardegna. C'erano tutte le caratteristiche per valutare un primario problema sul tappeto: come accompagnare la definizione dei parametri facendo partecipare soggetti istituzionali e sociali capaci di creare consapevolezza pubblica. Insomma da mesi si era capito che l'assenza di una cultura sociale sui temi della sicurezza avrebbe prodotto esplosioni emotive e comunque non razionali. Nucleare contro coltivazioni di fragole, fantasmi di Chernobyl contro insediamenti turistici. Eccetera.
Ha scritto Giuliano Zincone sul Corriere della Sera che l'errore del governo è stato essenzialmente di vuoto comunicativo. Ha detto coraggiosamente il Ministro dell'Ambiente Altero Matteoli: abbiamo sbagliato nella comunicazione. Così, scegliendo il percorso della scelta tecnicamente giusta nelle condizioni di blitz, il sociale è diventato protagonista reattivo di un processo decisionale freddo. Nel clima riscaldato dalla paura (e nel caso della Basilicata anche da un sentimento di offesa per ciò che soggettivamente è stato vissuto come una non considerazione delle volontà locali) ogni passaggio tecnico è stato scavalcato da fattori indagabili solo dalla psicologia sociale. Tema noto e prevedibile. Esito, insomma, scontato in un paese che Giuseppe De Rita chiama ''regno inerme'', cioè che sfiora sempre il principio della de-istituzionalizzazione.
La vicenda lucana ha riprodotto in modo più teso il laboratorio estivo della Sardegna. Decreto ritirato, scelta rinviata (mentre l'Italia ha la responsabilità come presidente di turno UE di varare la misura comunitaria di urgenza per definire i depositi unici nazionali), commissione di studio, raffreddamento della questione (si parla di non meno di un paio di anni).
La ''cabina di regia'' della comunicazione istituzionale resta dunque il vulnus di questo paese più che di questo governo. Da anni vi è il problema di un luogo in cui pensiero, professionalità e competenza si saldino attorno ai temi maggiori del rapporto tra istituzioni e società civile. Non per interventi spot, casuali, improvvisati. Ma per costruire (come il modello anglosassone del COI - Central Office of Information - insegna) un laboratorio professionale pubblico a misura di problemi che appartengono ormai alle decisioni difficili, cosiddette della post-democrazia. Troppo facile comunicare gli orari dei treni o mettere in rete leggi e regolamenti. La scommessa riguarda la ''spiegazione'' delle cose difficili, dei caratteri processuali del cambiamento. La super-scommessa è l'inclusione nelle parti condivisibili di decisioni necessarie di ambiti vasti di opinione pubblica.
Non è solo questione di pubblicità ma di misure serie di accompagnamento educativo e culturale. Abbiamo perso molti anni smantellando ipotesi istituzionali e presidiando in modo minimalista le istituzioni nella convinzione che una buona intervista di un ministro risolva tutto. E' così che non rendiamo più credibili le istituzioni, rischiando di far naufragare tutto ciò che la ragione farebbe riconoscere come giusto. Europa compresa, dove sulla giusta prospettiva dell'integrazione stanno allungandosi le ombre delle paure: dall'Euro alzaprezzi all'Allargamento vissuto come invasione.