Tema: Formazione

Lavoro, carriera o vocazione: quale futuro per il comunicatore?

Come cogliere possibilità e individuare sbocchi senza cadere vittime di tranelli e inganni.

di Andrea Pitasi

Questo articolo è un invito ai giovani ad intraprendere una delle professioni della comunicazione, settore in cui possibilità e sbocchi non mancano ma neppure tranelli e inganni. Intanto, ridimensionando molti miti legati al mondo della comunicazione.


Un bravo comunicatore crea trend, non applica solo tecniche e giochi d'immagine.

Un ottimo comunicatore non solo crea trend ma crea filosofie, strategie e stili di vita applicabili, vantaggiosi per chi li adotta e in grado di fare ''massa critica'' in modo quasi magico come insegna uno dei guru mondiali di trend analysis, Gerd Gerken.

Un bravo giornalista americano, David Brooks con ''Bobos in Paradise'', ad esempio, ha saputo dipingere magistralmente un trend ? quello dei ''bobo'' ovvero della generazione di trentenni americani ''bourgeois bohemien'', mentre Giacomo Leso de ''L'Espresso'' ha, invece, tratteggiato con grande intelligenza il fenomeno francese della ''No-no Generation'' e della ''New Simplicity'' intesa come autarchico rifiuto della globalizzazione e ritorno ad una vita spartana depurata dai vizi (sempre che tali siano) del consumismo capitalista. Due esempi opposti di come la comunicazione possa dare identità e riconoscibilità a fenomeni sociali collettivi?

Ho sempre guardato con grande diffidenza alle facili etichette ideologiche, alle visioni semplicistiche e spesso manichee offerteci dai giornalisti e dai politici ed ho sempre pensato che il ''perfetto stratega'' della comunicazione fosse assolutamente in grado di maneggiare suddette etichette e visioni semplicistiche ma che le reputasse troppo stupide per servirsene.

È noto a chi si occupa di comunicazione che l'uomo è un ''risparmiatore cognitivo'' ma questo non ci autorizza a pensare ''il target'', il destinatario della nostra comunicazione, come sostanzialmente passivo, manipolabile, seducibile con una facilità tale da far impallidire i comportamentisti più dogmatici del Tardo Ottocento. Il comunicatore del passato e, in alcuni casi, anche del presente, si identificava come un incantatore, un manipolatore delle coscienze, un ingegnere delle anime e così via.

Adesso non dovrebbe essere più così.

Usando il termine comunicatore in senso ampio, e includendovi, dunque, anche i giornalisti, possiamo fare un esempio che spiega quanto il manipolatore, l'incantatore, il seduttore che guida una massa passiva e altrimenti perduta, sia più un mito creato dai comunicatori stessi, per motivi facilmente intuibili, che non un fatto concreto. I giornalisti, ad esempio, scrivono pezzi per fogli di carta che già il giorno dopo oppure pochi giorni più tardi, servono per incartare il pesce, pulire i vetri delle finestre o proteggere un pavimento dal lavoro degli imbianchini che tinteggiano una stanza. E quando il giornale è fresco di stampa? La gente che ha il tempo e la voglia di leggere davvero un giornale è veramente poca. Il giornale viene sfogliato, i titoli vengono fatti scorrere rapidamente e, tutt'al più, il lettore si fa una vaga idea dei temi trattati leggendo, in media, non oltre gli occhielli. Un paio di articoli, magari, vengono anche letti per intero.
 
Che cosa il lettore trattenga, memorizzi consciamente o meno è qualcosa di poco consistente e probabilmente insondabile. Davvero un potere persuasivo dirompente, no?

Le pubblicità inondano le case dei telespettatori che fanno zapping per evitarle, mediamente le ignorano, e fatte alcune eccezioni, gli spot scivolano via dalla coscienza praticamente subito e dall'inconscio non molto dopo. Mentre gli effetti della pubblicità sembrano piuttosto modesti, il suo valore aggiunto per un'impresa sembra addirittura inafferrabile come neve al sole.

Misurare l'incidenza della pubblicità sul fatturato, qualunque metodologo serio e corretto lo può facilmente spiegare, rasenta la metafisica. Non è casuale che in periodi di recessione economica, le imprese taglino molto spesso le spese iniziando dalla pubblicità come a sottolinearne l'indiscusso potere manipolatorio. La bolla speculativa della new economy, creatasi dall'illusione che le informazioni e le conoscenze riorganizzate attraverso i sistemi multimediali e messe in rete globale, possedessero valore aggiunto in quanto tali, inoltre, ha dato un altro scossone al mito della capacità della comunicazione e dell'informazione di generare reddito portando l'economia ad una brusca frenata, oltrettutto danneggiata, in Europa, dalla sopravvalutazione dell'euro con relativa riduzione della capacità di esportazione, settore in cui la comunicazione e le public relations giocano di solito un ruolo di un certo rilievo, quando, per l'appunto, l'economia non è in recessione.

Insomma, dopo la bolla della new economy, la retorica dell'immagine, del fascino intangibile della comunicazione, dell'apparire vendendo fumo o specchietti per le allodole è uno stile di lavoro che lasciamo ai giocolieri da circo e ai venditori porta a porta.
Prestigiosi studiosi bocconiani stanno analizzando come classificare e misurare gli intangibili ''veri'' cioè quelli che effettivamente sono capitalizzabili e creano valore aggiunto eliminando quelli ''falsi'' che creano solo bolle speculative e miseria.
Già l'esperto di knowledge management, Thomas Stewart, aveva trattato nei suoi libri la valutazione e misurazione della conoscenza e dell'informazione in termini di ricchezza, illustrando vari strumenti (la Q di Tobin, in primo luogo) utili a tale scopo.


Come la conoscenza, la comunicazione e l'informazione possono creare valore aggiunto effettivamente classificabile e misurabile?


A mio parere, la risposta è su più livelli:

a) creando filosofie, strategie e stili di vita funzionali alle esigenze concrete, pratiche ed immediate dei targets segmentati in funzione dei vantaggi che essi possono ottenere da suddette filosofie/strategie e stili.
b) Implementando studi metodologici e strategici sulla misurabilità pratica degli intangibili.
c) Riconoscendo all'immagine, all'estetica e al packaging una indiscutibile rilevanza tattica entro strategie pluridimensionali ma sapendo che a libello strategico questi strumenti generano solo bolle.
d) Superando le annose e sterili dicotomie tipo teorico/pratico, alta/bassa cultura e approdando ad un'impostazione metodologica da ''knowledge manager'' consapevole che ogni fonte di comunicazione, conoscenza e informazione può divenire strategica se evoluta ed elaborata come procedura applicabile e misurabile (e in questo, come in molte altre cose, gli Americani ci sono maestri, si veda, ad esempio, la ricerca di M.Seligman sulla costruzione della felicità).
e) Puntando sull'eccellenza e sulla creazione di risorse umane ad alta strategicità, a volte ad alta e a volte a bassa reperibilità, creando, però, pochissime risorse a bassa strategicità. Purtroppo, il mondo della comunicazione sta diventando un luogo in cui le sirene di Ulisse sono in agguato nel creare l'illusione di un grande futuro offrendo, però, ''lavoro'' e, dunque, poche carriere e ancor meno spazi per le vocazioni.

Il distinguo tra ''lavoro'', ''carriera'' e ''vocazione'' mi è stato suggerito dalla lettura di Seligman. Il lavoro, in parole povere, è qualcosa che si fa in cambio di un reddito, per sopravvivere, precariamente, senza ambizioni, aspettative, progetti o soddisfazioni personali. La carriera si fa anche per acquisire redditi crescente ma esso deve essere accompagnato da altrettanto crescenti forme di potere, prestigio, gratificazione ecc? La vocazione è pura espressione di talento innato e di potenzialità autoorganizzative - queste sì - apprendibili e migliorabili con metodo, costanza, determinazione e impegno.


La vocazione è capacità innata di perdere la coscienza di sé e del trascorrere del tempo nel flusso (flow, lo chiama Seligman) della creatività auto-espressiva da cui emerge l'eccellenza.Usando uno strumento assai consolidato del management delle risorse umane, ovvero la matrice di Kraljic, vorrei riflettere su quale tipo di risorsa umana diventi il comunicatore che lo fa per lavoro, carriera o vocazione

 
Alta strategicita'
Bassa strategicita'
Alta reperibilita'
carriera
lavoro
Bassa reperibilita'
vocazione
lavoro

La matrice rivela che, in due casi su quattro, il rischio che l'ingresso nel mondo della comunicazione conduca ''solo'' ad un lavoro è piuttosto alto in quanto accomuna tutte le risorse non strategiche, siano esse ad alta o bassa reperibilità. Un webmaster, un grafico, un copy, un account sono tutte figure non particolarmente strategiche e abbastanza reperibili. Un grande creativo, uno stratega con una vision in grado di prevedere e modellare i trend, sono risorse altamente strategiche ma di cui vi è un'offerta quasi pari alla domanda per cui queste figure si muovono in ambienti altamente competitivi.

Vi sono poi coloro che con talento innato e potenzialità evolute creano nuovi mondi attraverso il flusso dell'espressività e sono anche capaci di attirare le persone in questi nuovi mondi (che per funzionare debbono essere vivibili e non bolle) e queste figure sono quelle altamente strategiche a bassa reperibilità sono cioè coloro i quali possono concretizzare le risposte alla domanda: Come la conoscenza, la comunicazione e l'informazione possono creare valore aggiunto effettivamente classificabile e misurabile?

Dunque, il mondo della comunicazione può offrire un sacco di lavoro e se questo non è una menzogna è certamente una trappola in quanto il successo delle (nuove) professioni della comunicazione si misura soprattutto sulle carriere e sulle vocazioni. Capire e conoscere se stessi, i propri talenti e le proprie potenzialità è il presupposto vincente affinché il mondo della comunicazione possa offrirvi qualcosa in più di un mero ''lavoro''.



Ultimo aggiornamento: 29/11/05