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Big society: luci, ombre e nuove sfide per stato e società civile

Il tema della big society continua a suscitare grande interesse anche in Italia. In questo approfondimento, anche a partire dagli spunti emersi nei vari convegni, si propone una breve analisi del concetto, cercando di evidenziarne gli elementi positivi e le possibili criticità (marzo 2011)

L’idea della big society scaturisce da un filone liberale attento ai risvolti sociali derivanti dalla compresenza nella sfera pubblica di altri interlocutori attivi, oltre allo Stato, per la gestione di attività di interesse generale.

Sostanzialmente sono due gli elementi che hanno favorito e accelerato l’imporsi di questo paradigma –anche definito, con accezioni man mano diverse, “terzo settore”, “attivismo civico”, “responsabilizzazione della società civile”. In prima istanza, si riscontra una progressiva e continua diminuzione del carisma e delle risorse a disposizione dello Stato, con una conseguente perdita di ruolo e una sempre minore capacità di intervento sociale. Inoltre, l’emersione di nuove soggettività nella società civile, capaci non solo di generare interesse e partecipazione ma anche di occuparsi di attività e servizi tradizionalmente appannaggio dello stato, ha sostanzialmente modificato gli equilibri classici, dove alla centralità dell’istituzione pubblica si alternava il cittadino-ricettore di servizi.

In questo contesto, la dimensione specifica che la Big Society inglese propone è quella di una partnership tra lo stato e le nuove soggettività –cittadini, terzo settore e ambito privato - non autoreferenziale, ma basata sui bisogni dei cittadini stessi e finalizzata ad una società migliore, con cittadini più attivi, responsabili e attenti ai bisogni della collettività, outcomes sociali più elevate e istituzioni più efficienti e accountable.

Lord Nat WEI, tra gli ispiratori e registi dell'iniziativa in Gran Bretagna, ha sottolineato, nel suo intervento al convegno in Italia della Fondazione Roma dello scorso 24 febbraio, che l’idea della big society non è nuova, cioè che è innovativo è invece il percorso proposto per svilupparla e alimentarla.

Questo iter, che, sempre secondo Lord Wei, vede la la Gran Bretagna solo all’inizio del suo percorso, prevede sostanzialmente 3 fasi: un primo momento, attualmente in corso, focalizzato sui cittadini e sulla società civile e finalizzato al loro empowerment civico sia attraverso programmi di coinvolgimento diretto anche rivolti a particolari target – come il National Citizen Service che coinvolge giovani di 16-17 anni in attività di inclusione e lotta a social divide – sia tramite la messa a disposizione di fondi – è il caso della big society bank – che permettano l’avvio concreto di tali iniziative. Questa prima fase è ulteriormente caratterizzata dalla formazione dei cosiddetti “community organizers” che avranno il compito di promuovere lo sviluppo, a livello locale, di attività di inclusione e di favorire il coinvolgimento dei cittadini in interventi a favore della propria comunità.

Una fase successiva sarà poi incentrata sulla promozione dell’imprenditore civico, per riprendere ancora le parole di Lord Wei “una sorta di Bill Gates della big society” che, anche attraverso le nuove tecnologie, dovrà diffondere e promuovere le opportunità e gli usi della big society ad un pubblico più vasto. Infine, l’ultimo è il più complesso step previsto dalla strategia britannica è quello volto al cambiamento culturale della società nel suo insieme, combattendo l’isolamento e la frammentazione sociale, l’apatia e il disinteresse.

Di fronte a un programma così ambizioso e vasto, per alcuni aspetti anche piuttosto vago e incerto, non potevano naturalmente mancare critiche accese, ancor più considerando che, in un tempo come quello attuale di crisi economica, il richiamo all’impegno della società civile può facilmente apparire propagandistico, alla stregua di una mera copertura pubblicitaria degli ingenti tagli alle risorse per il terzo settore.

Indubbiamente l’idea della big society presenta innumerevoli criticità. Innanzitutto il ruolo dello stato, a fronte del nuovo engagement della società civile nella gestione di servizi pubblici, non appare del tutto chiaro, nonostante lo stesso Nat Wei abbia precisato che “più società civile non vuol dire necessariamente meno stato o fuga dalle responsabilità ma è semplicemente la presa di coscienza che lo stato da solo non ce la fa più ad affrontare grandi questioni sociali che appaiono oramai condivise”. E’ chiaro però che, anche in un contesto in cui agiscono più soggetti, rimane compito dello stato garantire il rispetto di alcuni diritti, quali per esempio, l’uguaglianza nell’accesso alle prestazioni o alcune funzioni di regolazione e controllo.

Un’altra perplessità sollevata ha a che fare, al contempo, con il ruolo della società civile e delle comunità locali. Da un lato, queste non sempre sono portatrici di interessi generali o condivisi ma possono divenire strenue sostenitrici di cause di parte e di soggetti predominanti; dall’altro c’è parimenti il problema delle competenze e motivazioni dei soggetti civici; queste possono mancare o essere talmente generiche da non rendere capaci le stesse comunità locali di gestire servizi pubblici così complessi e nell’interesse della collettività. In tal senso sia per prevenire una “dittatura della maggioranza” che per avere benefici effettivi dal going local, è necessario quanto mai chiarire le questioni dei compiti e delle responsabilità.

Sempre sul tema della società civile, il programma della big society non affronta chiaramente la questione delle differenze all’interno dei soggetti che la compongono: imprese sociali, mondo del no profit e dell’associazionismo, cittadini attivi sono tutti collettivamente richiamati, mentre tra profitto e volontariato, le logiche sottese sono diverse e richiedono dunque approcci diversificati.

Infine altre perplessità, seppur a livello più operativo, hanno a che fare con i soggetti coinvolti nella prima fase del programma big society – "community organisers" da un lato e dipendenti pubblici dall’altro. Nel primo caso, appare poco chiaro come queste figure, quelli che Cameron definisce il "neighborhood army" e che dovrebbero avere ruoli di volàno e facilitatori possano coordinarsi, venendo oltretutto proposti con una logica top down, con le centinaia di referenti e volontari che già esistono e operano sul territorio a livello locale e dal basso. Per quanto concerne invece i dipendenti pubblici, appare quantomeno bizzarra la logica secondo la quale ai tagli che si prevedono per il settore, si accosti un approccio per cui gli stessi dipendenti possono unirsi in cooperative sociali per gestire i servizi prima erogati da quelle stesse organizzazioni e agenzie pubbliche per cui una volta lavoravano.

Eppure, nonostante le significative criticità che questo percorso mette in luce, è evidente che la big society è portatrice di stimoli che, pur non nuovi, hanno inaugurato una stagione innovativa di dibattito e confronto sulle strategie, almeno in Gran Bretagna. Il lancio della big society e la discussione che ne è derivata, a livello politico, sui media e all’interno dello stesso terzo settore, è infatti di per sé un segnale positivo, per la comunicazione istituzionale e per lo spirito di confronto costruttivo che ne sono derivati.

Estremamente positive e di buon auspicio sono inoltre le riflessioni avviate, nel contesto della big society, sulla capacità dei cittadini di svolgere attività e funzioni per la cura dell’interesse generale. L’idea dell’affidamento alla cittadinanza sottolinea un cambio di paradigma importante, specie raffrontandolo con il contesto italiano dove, fino a circa 10 anni fa prima della riforma del titolo V della Costituzione, i cittadini impegnati in attività legate alla tutela del bene comune ma la cui competenza era esclusivamente appannaggio dello stato, potevano ancora essere “multati per eccesso di cittadinanza”.
Dunque la strategia  inaugurata con la big society individua elementi importanti per un giusto e formale riconoscimento del ruolo dell’attivismo civico nella gestione pubblica, pur senza dimenticare che la sussidiarietà presuppone una suddivisione del lavoro e dei compiti, dove lo stato non perde nessuno dei suoi poteri, ma li esercita in un’interazione sinergica con altri soggetti.

Ultimo aggiornamento:  17/06/2013